MARIA CRISTINA BIGGIO
Maria Cristina Biggio
Approdata per caso ad un laboratorio di fotomontaggi, a metà anni ’80 a Roma, vi scopro un nuovo linguaggio figurativo caratterizzato dalla spregiudicatezza di scontornare un soggetto o un dettaglio dal suo contesto con gesto dissacrante e liberatorio da quella secolare inscindibilità iconografica. Qualsiasi tipo di immagine stampata, dalle riviste illustrate alle enciclopedie d’arte, viene ritagliato secondo estetica e/o semantica. I pezzi tornano nel caos, costituiscono il pozzo di materiali a cui attingere per tentare di rappresentare visivamente ciò che la semplice realtà fotografica non rende. Il procedimento della composizione altera i rapporti tra le figure creando associazioni imprevedibili e bizzarre pur prendendo a pretesto soggetti comuni, ed esce dalla specularità razionale pervasiva che pretende la onnicomprensibilità.
Luogo come stato dell’essere
Ma la ricerca continua. Indago lo spazio come site-specific con installazioni di land art, opero direttamente sulla materia riassemblandone le parti, metto in scena un atto unico destinato a durare il tempo che trova (di cui un paio con titoli ‘abitare il confine’ e ‘apolidi tra sponde’). Mi riallaccio a questo tema proponendo, qui a Soriano, alcuni “luoghi”. Come per quello fisico, nelle virgolette del luogo si va si sta ci si rifugia se ne esce se ne torna, o che una volta raggiunto non è più lo stesso di quando era una meta un’idea un desiderio un bisogno, perché ha in sé il vissuto inerente al percorso e quando vi si giunge è già altro. C’è il luogo scelto, segreto, sacrificato, meditato, mitico, atteso, alterato…C’è un luogo fra le letture, nell’idea, dell’immaginario collettivo, con l’eros, sul mito, per l’orizzonte non ancora perduto…