Libro “E Poi…”
In questo libro fotografico di Enzo Trifolelli si nota, innanzitutto, la ricerca di una vera e propria innovazione fotografica, che,iniziata dai Fratelli Bragaglia e il loro fotodinamismo, passando poi attraverso tutte le serie sperimentali di Man Ray, Cristian Schad, László Moholy Nagy, Luigi Veronesi giunge fino a noi con le ”verifiche” di Ugo Mulas, le opere di Franco Vaccari ed altri.
Nelle opere di Trifolelli è indubbia la volontà di non rappresentare il soggetto, ma di interpretarlo concettualmente ed ottiene questo risultato stravolgendo la naturale predisposizione della fotocamera a renderci la realtà secondo i classici schemi della prospettiva rinascimentale, motivo fondamentale per cui la fotocamera stessa è nata e tuttora si impone, per portarci, quindi, in un mondo sconosciuto, visualizzando l’invisibile e materializzando l’immateriale.
Dice Vaccari, indubbiamente tra i più grandi artisti-fotografi degli ultimi tempi, nel suo libro “Inconscio tecnologico”: <<La differenza della nostra posizione consiste nel vedere in quella che viene definita “pura e semplice resa fotomeccanica della realtà” un processo già di per se stesso strutturato simbolicamente, mentre nell’intervento umano, teso ad attribuire all’immagine un valore significativo ed espressivo, non vediamo che un fraintendimento della fotografia, una rimozione della realtà più profonda.>>
E ancora Vaccari: <<all’inconscio ottico di Benjamin con polarità sull’umano cerchiamo di aggiungere l’inconscio tecnologico con polarità sullo strumento.>>
In accordo, in parte, con questa teoria, cercando di sondare” l’inconscio tecnologico” a cui si riferisce lo stesso Vaccari e dando, quindi, più spazio alle infinite possibilità del solo apparecchio fotografico, Trifolelli concretizza un concetto inedito: la rappresentazione del soggetto nello spazio-tempo, e non il congelamento dello stesso in un tempo infinitesimale, di bressoniana memoria.
L’autore si immerge nella scena ed usa il mezzo fotografico come testimone e registratore dell’evento, mettendo in risalto sia l’energia del soggetto, con tutto quello che lo circonda, sia la collocazione spaziale e smateriarizzandolo lo porta in un’altra dimensione spazio-temporale dove si ri-materializza, lasciando evidenti tracce di luce ed energia nel percorso di questa trasposizione.
Il soggetto acquista così una tridimensionalità che esula dalla normale resa prospettica, palesando anche la volontà di mostrare più identità.
L’autore nomina questa concetto “Fototempismo” con un chiaro riferimento al trascorrere del tempo nello spazio in fase di ripresa fotografica.
Nel Fototempismo, i soggetti, con il loro forte dinamismo, perdono quell’alone di morte, legato alla fotografia stessa e descritta da Roland Barthes nella sua Camera Chiara; ecco cosa avvicina la fotografia alla Morte: il senso “macabro” di un essere-senza-futuro.
L’unica cosa a disposizione è un “è stato” ormai non più modificabile.
Vittorio Sgarbi, nella suggestiva comparazione tra il quadro “Il balcone” di Manet e la “copia”di Magritte, evidenzia come i tre personaggi, affacciati ad un balcone, siano rappresentati in maniera “impressionistica” simile a una ripresa fotografica “istantanea” alla Cartier Bresson, e dichiara: <<La forza della pittura rispetto alla fotografia è che la pittura rappresenta la vita e la fotografia rappresenta la morte.
Se avessimo di questi personaggi una fotografia essi sarebbero lontani in un tempo che non è il nostro e invece adesso, nella pittura, continuano ad essere vivi, ma vivi soltanto nell’arte.>>
Concetto che conferma l’idea di Barthes sulla morte nella fotografia e da cui il ©FoTotempismo “©PhoTotiming” è, secondo noi, esente perché più vicino ad una rappresentazione della realtà fuori dal tempo stesso della ripresa.
-Gianpiero Ascoli