Danzando intorno alle Statue
Immagini di sculture che paiono rianimarsi, rivivere e vibrare, come dimentiche di quel passato in cui la storia le aveva relegate.
Non si può rimanere indifferenti di fronte ai loro sguardi che, giunti da tempi remoti, ci osservano inquieti; sguardi che si raddoppiano e si moltiplicano come sospinti da un vortice.
La materia stessa della pietra e del marmo a tratti si congela, ma poi si dissolve in traiettorie luminescenti, create dal lungo tempo di posa e dal gesto dell’autore, che si muove attorno a loro come un danzatore attorno a un’antica divinità.
Enzo Trifolelli non è infatti interessato a rappresentare in modo “esatto e corretto” i corpi delle statue.
E questo perché, come sosteneva Constantin Brancusi, lui è consapevole che “ciò che è reale non è la forma esteriore, ma l’essenza delle cose”.
Partendo da questa verità è impossibile per chiunque esprimere qualcosa di essenziale imitando la superficie esteriore.
Protesi a creare immagini capaci di evocare l’aura e l’anima delle opere di fronte a loro, entrambi questi autori creano fotografie che dematerializzano la statica, monolitica materialità delle sculture; dànno vita a immagini che si rifiutano di raddoppiare la loro immobilità in uno scatto meccanico, privo di anima e raggelato in un unico punto di vista, in un unico istante.
Quando le loro immagini sono mosse è perché accolgono il tempo e sono dotate di una vibrazione interna che le sporge sull’orlo di trasfigurazioni aperte verso nuove dimensioni spazio-temporali.
Trifolelli però, diversamente da Brancusi, non sperimenta tutto lo sperimentabile, non sovrappone negativi, non interviene con graffi, non gioca con la luce.
No, lui usa la fotografia in un modo ortodosso: niente photoshop, nessun intervento in fase di postproduzione.
Tutto si gioca nella fase della ripresa, grazie al suo innovativo “FoTotempismo”, da non confondere col celebre “fotodinamismo” dei fotografi futuristi.
Mentre questi ultimi, infatti, documentavano la realtà in movimento, il nostro autore, pur usando come loro un lungo tempo di posa, fa infatti un’operazione contraria: strappa le sculture all’immobilità per dare loro una nuova vita e immetterle in un tempo dilatato, a sua volta vitale, dove l’“inconscio ottico” della macchina fotografica viene lasciato libero di agire, di registrare gli esiti delle traiettorie del corpo dell’artista, proteso a inseguire i soggetti da più punti di vista.
Multiprospettiche, pluritemporali, instabili, le sue immagini sfidano la bidimensionalità e la fissità dell’obiettivo tipiche della fotografia.
Sono il frutto di una sorta di performance “immersiva”, che connette le sue opere al tempo umano e alle emozioni, che le apre a nuove relazioni tra spazio e tempo, a nuove interazioni tra visione e percezione.
-Gigliola Foschi