Il FoTotempismo nel Risveglio delle Statue I
In questa pubblicazione Enzo Trifolelli si mette di nuovo alla prova, attraverso il suo FoTotempismo, con uno dei soggetti più difficili da fotografare: le statue e, in particolare, le statue nei musei.
Ricordo un solo precedente in merito: il lavoro del grande Mimmo Jodice nel Museo Archeologico di Napoli in cui, con una opportuna attrezzatura, ha evidenziato le statue dal contesto circostante dandogli così un significato del tutto nuovo e particolare.
Trifolelli, invece, ha fotografato le sculture alla luce naturale del museo, nelle condizioni di un comune visitatore, per non snaturarne la normale esposizione e permettere così una relazione più immediata delle fotografie in “FoTotempismo” con le statue stesse.
Esaminiamo ora quali sono le novità introdotte da questo tipo di fotografia in relazione ai contesti storici precedenti.
Agli inizi degli anni ‘70 del secolo scorso, i maggiori esperti e filosofi della fotografia come R. Krauss, R. Barthes, S. Sontag, spostarono la loro attenzione teorica sulla indicalità della fotografia, traendo questo concetto dagli studi dello scienziato e filosofo americano Charles S. Pierce (1839-1914) che, nella sua opera fondamentale “Logica come semiotica: teoria dei segni” divide gli stessi in:
- indici (il segno intrattiene un rapporto “esistenziale” con l’oggetto denotato).
- icone (il segno rimanda al denotato in virtù di una somiglianza effettiva).
- simboli (il segno rimanda al denotato in ragione di una pattuizione).
Contrariamente ai simboli, gli indici stabiliscono la loro esistenza sulla base di un rapporto fisico con il referente, come nel caso delle impronte, delle ombre.
La fotografia è il risultato di un’impronta fisica che è stata trasferita su una superficie sensibile dalla luce riflessa, e questo è un indice, come evidenziato in maniera estrema dalle “rayographies” di Man Ray, dove gli oggetti erano posti a contatto direttamente sulla carta sensibile.
Secondo Peirce, non esistono icone o un indici puri, ma sempre simboli con varia presenza di elementi iconici e indicali.
Per spiegare questi concetti prende come esempio la fotografia, mettendone in evidenza la dialettica fra iconicità e indicalità.
Nel 1980, Barthes reinterpreterà il concetto di indice secondo il suo pensiero di “messaggio senza codice”.
La fotografia è infatti, per lui, un “analogon” perfetto del mondo in quanto il soggetto è «letteralmente una emanazione del referente» dovuta ai raggi luminosi che, dal soggetto, vengono riproposti in maniera integrale sulla pellicola o sensore rendendo, appunto, la fotografia stessa un messaggio diretto che non necessita di un codice interpretativo.
Una revisione, quarantacinque anni dopo, di queste idee, pur concordando sulla loro importanza storica, ne rileva alcuni limiti.
Un limite è quello di avere estrapolato dalle teorie di Pierce alcuni concetti e di averli applicati ai tempi odierni, troppo distanti dai suoi scritti dei primi del ‘900 e dalle moderne tecniche di ripresa fotografica.
Il pensiero originale di Pierce sulla fotografia deriva da una pratica scientifica della stessa, che lo separava nettamente dal regno dell’estetica.
Non risulta una sua teoria sulla fotografia che ha preso solamente in prestito per le sue dimostrazioni sul concetto di indice.
Rammentiamo che, ai suoi tempi, la fotografia era all’inizio e si fotografava ancora con i dagherrotipi.
Un altro limite è quello di avere considerato la macchina fotografica alla stregua di una Camera obscura-stenopeica, cioè senza obiettivo, l’unico strumento in cui la figura rappresentata sulla parete è veramente una emanazione diretta del soggetto, cioè il suo indice o impronta che dir si voglia.
Nelle macchine fotografiche, oltre l’obiettivo, che già condiziona notevolmente la realtà della rappresentazione, vi sono: il diaframma e il tempo.
Questi due dispositivi, opportunamente manovrati, possono stravolgere completamente la riproduzione della realtà.
Nella maggioranza delle fotografie, il tentativo più comune di avvicinarsi al reale è quello di diminuire al massimo il tempo di posa, congelando così la visione.
Il tempo, invece, può portare un contributo alla conoscenza della realtà, vista attraverso il suo scorrere, per rivelarne una nuova, non percepibile dai nostri sensi, ma comunque esistente.
Dice F. Vaccari: la fotografia è tale se ci aiuta a scoprire quello che non sappiamo, invece di confermarci quello che già conosciamo.
Il FoTotempismo La grande novità introdotta dal FoTotempismo consiste in un nuovo sistema di ripresa, attraverso la macchina fotografica che favorisce un’interpretazione concettuale della realtà e non sua mera presentazione, pur sempre mediata dall’autore.
La forte dilatazione del tempo in favore dello spazio, tipica del FoTotempismo, permette la visualizzazione del soggetto in diverse posizioni spaziali, aumentandone così la tridimensionalità, indipendentemente da quella data dalla normale prospettiva.
Si crea inoltre, al momento dello scatto, una tensione e una nuova forma di estetica all’interno della fotografia stessa.
Si può affermare, con P. A. Florenskij, che rappresentare lo spazio-tempo su un piano è possibile, ma non lo si può fare che distruggendo e ricostruendo la forma del rappresentato.
A questo aspetto è legato anche il filo conduttore con cui l’autore traccia nello spazio, durante la ripresa effettuata con un singolo scatto, una linea immaginaria con la macchina fotografica, che verrà poi visualizzata con linee di forza, caratterizzando la fotografia con un “segno”.
Questo “Segno”, introdotto per la prima volta nella fotografia e irripetibile per ogni scatto, può essere assimilato a quello fatto da un pittore o uno scultore per rappresentare il soggetto, e quindi introduce questo tipo di fotografia nel dominio dell’arte.
L’effetto visivo del FoTotempismo non fa che confermare questa ipotesi: infatti, se le fotografie fossero trasformate in pitture, l’osservatore non riuscirebbe a capirne la reale origine e si compiacerebbe mentalmente con l’autore per la fantasia e la forza evocativa del quadro.
Con tutto questo la fotografia trova quel completamento capace di confermarla definitivamente una componente dell’Arte contemporanea, se per Arte si intende esprimere un pensiero in maniera nuova e originale.
il Risveglio delle Statue Si potrebbe dire, riferendosi al famoso film Una notte al museo, del 2006 diretto da Shawn Levy, che queste fotografie, similmente al film, permettono alle statue di rivivere, muoversi, vedersi, incontrarsi, scontrarsi, staccarsi da quella immobilità che, per secoli, le ha costrette nella stessa posizione, eliminando così anche quell’effetto di lontananza storica che l’osservatore ha nel guardarle normalmente.
Infatti, esaminare le foto di questo libro non è riconoscere, come in un catalogo, le varie statue ben fotografate con le relative descrizioni storiche, ma è fare un viaggio onirico nelle stesse, accompagnati dai commenti, che ne rafforzano la visione fantastica.
Trovo che questa opera, per il contenuto unitario e la presentazione grafica, sia un ottimo esempio di cosa dovrebbe essere, oggi, un libro fotografico per destare l’attenzione, regalare nuove emozioni e, soprattutto, proporre un cambiamento capace di rinnovare un settore, oramai saturo, come quello fotografico.
–Gianpiero Ascoli