Il Tempo e lo Spazio in Enzo Trifolelli
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, agli albori della fotografia, si riteneva che la fotografia dovesse servire a documentare le cose così come appaiono ai nostri sensi, grazie all’occhio vitreo, neutrale, impersonale della macchina fotografica.
Per la verità, già Nadar davanti ai grandi personaggi della letteratura e delle arti visive, dico, per citarne alcuni, Beaudelaire, Hugo, in posa davanti al suo obbiettivo, aveva intuito che il motore di quell’artificio risiedeva, pur in tempi di incubazione dei canoni positivisti, nella mente e nello sguardo del manovratore dell’infernale congegno e che, perciò, più o meno consapevolmente, era inevitabile che la soggettività prendesse il sopravvento sul canone dell’impersonalità.
Il ritratto di Beaudelaire, per esempio, non ci dà soltanto le fattezze fisiche di un uomo, esso è il ritratto del poeta tenebroso della Parigi tentacolare, del suo mondo poetico, della modernità, che solo una complicità interattiva tra Nadar e Beaudelaire stesso poteva darci, in violazione del canone dell’impersonalità.
Premessa utile, questa, per entrare con più verità nel mondo poetico di Enzo Trifolelli, fotografo di Soriano nel Cimino, il quale, lucidamente e criticamente partecipe, con i protagonisti della fotografia contemporanea, del dibattito in atto e degli esiti più maturi di quest’arte, in grande evidenza in questo momento di dominanza nell’ambito delle arti visive, allontanata qualsiasi ipotesi di mimesi della realtà, trova con autorevolezza il suo spazio vitale e di identificazione nel rapporto spazio-tempo, costituivo, insieme con l’energia che ne deriva, di una originale lettura del reale, delle icone del nostro tempo, dei nostri rapporti con l’esistente.
L’idea felice e, direi, ossessiva è quella di introdurre nella fotografia il tempo al servizio di una resa dinamica dell’esistente, anzi, al di là dell’esistente.
Trifolelli non vuol documentare, alla maniera dei futuristi, la realtà del movimento: si pensi all’opera “Suonatore di violino” di Bragaglia o all’altra “Le mani del violinista” di Balla.
Arriverebbe tardi di quasi un secolo.
Trifolelli vuole, invece, strappare all’immobilità l’oggetto per sua natura o per destinazione immobile, per dargli nuova vita, in un contesto e in un orizzonte diversi: quelli del suo mondo poetico.
Che è denso di inedite relazioni e originali connessioni, offerte a sé stesso e ai destinatari della sua visione e rivisitazione di ciò che appare ai nostri sensi.
Una scultura, che pure nasce dalla vita, ma è consegnata per sempre a una museale immobilità, con Trifolelli ritorna alla vita, ad altra vita, rianimandosi improvvisamente, grazie all’artificio mentale, cui è asservito l’occhio vitreo della macchina fotografica.
Le pulsioni di vita e di morte, proprie dell’uomo, riprendono ad agitare, del simulacro umano esplorato, occhi e mente, terminazioni nervose, passioni, impeti e assalti in un vivace, persino violento, rapporto dialettico con sé stesso e con il mondo circostante.
Allo stesso modo il Pierrot di Trifolelli anima una relazione dialogica con il Pierrot che è in noi.
Come anche con le maschere mutanti e il volto scultoreo.
Quest’ultimo travalica il confine fissato dal suo autore per trasformarsi in entità attoriale, in un duello drammatico con sé stesso nell’immaginario palcoscenico della sua e della nostra vita.
E quanto, poi, il movimento sia la sua ossessione, lo dice ancora, a latere della mostra, la serie di dittici fotografici, dal titolo “Rinascere”, dove esplode la sua incontenibile, devota ammirazione per la poetica berniniana, per quel versante barocco, che è generatore di dinamismo illusionistico e di di onisiaca vitalità, che sono, appunto, la sua inconfondibile cifra stilistica, il suo stigma.
–Giovanni Stella